lunedì 14 settembre 2015

"Ho sognato la cioccolata per anni" di Trudi Birger

TITOLO: Ho sognato la cioccolata per anni

AUTORE: Trudi Birger

CASA EDITRICE: Piemme

FRASE PREFERITA: “Ero libera”

TRAMA: Questo romanzo, autobiografico, è ambientato tra la 2° Guerra Mondiale e il 2° dopoguerra con la creazione dello Stato d’Israele.
La protagonista principale è Trudi Birger che all’età di 16 anni viene deportata, dai nazisti, dal ghetto di Kovno al lager di Stutthof.
Trudi viveva, con la sua ricca famiglia, in una comunità ebraica ortodossa a Francoforte.
La cuoca, la cameriera e la governante, Candy, si prendevano cura di loro.
I suoi genitori le avevano insegnato a rispettare gli impegni personali e i propri doveri.
Sua madre Rosel, con cui aveva un legame particolare, indissolubile, era una donna molto bella, raffinata, istruita e  amava suonare il pianoforte.
Suo padre, Philip, un industriale di successo, era un uomo intelligente, severo e sicuro di sé e nei confronti di Trudi nutriva una particolare preferenza.
La loro presenza le permetteva di vivere in un’atmosfera agiata, sicura e piena d’amore.
Quando Trudi aveva  6 anni, i nazisti salirono al potere.
Un giorno, mentre era in macchina con i suoi genitori, venne fermata da alcuni soldati.
Da quel momento si rese conto che suo padre non veniva più considerato il cittadino colto e raffinato di Francoforte ma semplicemente uno “sporco ebreo”. Da quel momento la sua vita sarebbe cambiata.
La situazione economica della famiglia cominciò a peggiorare, fino al punto di doversi  trasferire a Memel, una città portuale sulla costa Baltica.
I suoi genitori, però, cercarono di far vivere a lei e a suo fratello, Manfred,  una vita serena. In quel periodo partecipava, spesso, ai the danzanti vestita con abiti di organza e scarpe di vernice e beveva tanta cioccolata calda, il suo dolce preferito.
Il profumo di quella dolcezza l’avrebbe accompagnata per tutta la sua esistenza. E’ come se fosse stato il simbolo della sua voglia di vivere.
A Memel, Trudi,  visse fino al 21 marzo 1939. Successivamente  venne mandata con la sua famiglia a Kovno. Qui cominciò a frequentare una scuola ebraica.
Dopo qualche mese vi furono altri cambiamenti politici.
I russi, nel 1940, s’impadronirono di Kovno e non si parlava più ebraico ma yiddish, una lingua simile al tedesco, per cui non ebbe difficoltà ad impararlo. Oltre a studiare, Trudi, seguiva anche un corso di recitazione. L’idea della guerra era ancora lontana.
Nel 1941, i russi, decisero che tutti gli ebrei sarebbero dovuti partire per la Siberia.
Per questo motivo, il padre di Trudi, pagò, di nascosto, un suo amico, Jonas, che li nascose in una cella frigorifera per tre giorni. Usciti sarebbero partiti per Shangai ma i nazisti presero il comando e spedirono tutti gli ebrei nel ghetto di  Slobodka, circondato da un filo spinato.
Erano diventati dei veri e propri prigionieri.
Sui loro abiti vennero cucite le stelle gialle ebraiche.
Gli ebrei non potevano viaggiare, frequentare la scuola, venivano picchiati, insultati , obbligati a fare i lavori forzati e nessuno di loro poteva reagire. Non esisteva un tribunale interrazziale o un governo indipendente a cui chiedere aiuto, e i mezzi d’informazione erano inesistenti.
La famiglia di Trudi viveva in un’unica stanza di tre metri per quattro.
Nel ghetto, Trudi, aveva imparato a sbrigarsela velocemente.
Aveva imparato a preparare il pane e per questo motivo la chiamavano la “piccola fornaia”; aveva iniziato a lavorar in una fabbrica di calze di seta e poi nei campi agricoli ma il lavoro che fece per più tempo fu nell’ospedale militare tedesco. Puliva i bagni insieme alla mamma.
 Per raggiungere l’ospedale doveva percorrere, a piedi, circa tre kilometri ogni giorno.
Anche se aveva paura delle SS sapeva che i nazisti non erano tutti uguali.
Aveva conosciuto, infatti, un militare molto gentile di nome Alex Benz che si preoccupava per lei e che le raccontava che la sua famiglia aveva fondato la Mercedes. (Lo rincontrò dopo la fine della guerra)
Alex, che  si rendeva conto di quanta sofferenza subivano gli ebrei senza avere nessuna colpa non si sarebbe mai voluto arruolare ma fu costretto. Non era però un soldato delle SS.
Trudi era lusingata di queste attenzioni. Il giorno che Alex  venne trasferito le regalò un orologio d’oro di grande valore che Trudi riuscì a barattare, di nascosto, per un po’ di cibo;         purtroppo, però, venne scoperta.
Avrebbe dovuto essere fucilata ma i nazisti decisero di non farlo e la lasciarono libera.
Gli anni nel ghetto furono tremendi e pieni di paura. Ogni giorno qualcuno veniva ucciso.
Le madri, per far sopravvivere i propri figli, li gettavano oltre il reticolato, con la speranza che qualche contadino lituano potesse prenderli e accudirli, cosa che spesso, fortunatamente, avveniva. 
Il papà di Trudi venne ucciso, insieme a un centinaio di bambini,  perché aveva provato a nasconderli, una volta scoperto che i nazisti avevano intenzione di fucilarli.
Anche la nonna e lo zio Benno vennero uccisi senza un motivo. La situazione, ormai, era diventata insostenibile.
Trudi rimase nel ghetto per circa tre anni dal 1941 al 1944.
I Tedeschi si rendevano conto che stavano perdendo la guerra.
L’Armata Rossa si stava avvicinando e gli alleati erano sbarcati in Normandia.
L’8 luglio 1944 i tedeschi riunirono gli ultimi ebrei rimasti nel ghetto e li trasportarono, in treno, nel campo di concentramento di Stutthof .
Arrivate a destinazione Trudi e sua madre vennero visitate da un dottore, che avrebbe deciso il destino di entrambe; Trudi venne mandata nella fila di destra, che si riferiva alla donne che sarebbero sopravvissute, andando a fare i lavori forzati, mentre sua madre venne mandata nella fila di sinistra che significava la morte certa nei forni crematori o nelle camere a gas.
Le donne prigioniere, che venivano controllate dalle “kapò”, donne tedesche in uniforme, mangiavano buccia di patate e facevano lavori forzati, come ad esempio  preparare le postazioni per i carri armati che dovevano difendere la citta’, o scavare fosse profonde di tre o quattro metri che sarebbero servite a contenere i corpi delle persone uccise.
Trudi, ogni giorno si scontrava con la morte.
Le condizioni di vita erano disumane.
Le persone avevano paura, freddo, fame. Erano psicologicamente distrutte.
La grande forza di volontà, l’attaccamento alla vita, il desiderio di un avvenire diverso aiutavano Trudi a sopravvivere.
Lottava anche per tenere alto il morale della mamma, con cui aveva un rapporto indistruttibile. Senza di lei non  sarebbe  riuscita a sopravvivere.
Le notti sognava tazze di cioccolato, pane e burro.
Un giorno si ferì gravemente ad una gamba; sapeva che se non fosse guarita l’avrebbero uccisa. Purtroppo le sue condizioni si aggravarono.
Era arrivata la sua ora. Ma non si scoraggiò. Il comandante del reparto decise di non farla uccidere.
Anche questa volta, un “miracolo” la salvò dalla morte certa; Trudì non capì mai per quale motivo il comandante fece quella scelta.
Nel frattempo le cose stavano cambiando.
Dal febbraio 1945 i nazisti smisero di usare le camere a gas ma i forni crematori continuavano ad essere usati.
Ogni giorno morivano decine di persone.
Durante gli ultimi mesi della guerra i nazisti cercarono di distruggere ogni prova.
La mamma di Trudi si ammalò di tifo ma poi si ristabilì.
Alla fine di aprile del 1945 cominciò la liberazione finale; le navi inglesi stavano arrivando e quelle tedesche si erano arrese.
La guerra era terminata e i sopravvissuti erano salvi.
Ricominciare dall’inizio non fu facile.
Inizialmente Trudi e sua madre vennero ricoverate in ospedale per la tubercolosi.
Una volta guarite cominciarono a ricercare i parenti e gli amici.
Il fratello di Trudi, Manfred e sua moglie Dita vennero identificati nella lista dei sopravissuti. Vivevano a Francoforte.
Si rincontrarono; erano felici di riabbracciarsi ma si resero conto di quanto le sofferenze avessero cambiato tutti,  sia nell’aspetto fisico che in quello psicologico.
I sopravvissuti spesso erano affetti da malattie nervose, difficili da guarire.
Un giorno Manfred fece conoscere a Trudi un suo amico.
Si chiamava  Zeev ed era un ragazzo intelligente, educato, parlava ebraico ed era attivista dello Stato di Israele.
Aiutava, clandestinamente, i profughi a immigrare in quello che sarebbe diventato lo Stato d’Israele; secondo Zeev gli ebrei dovevano vivere nella loro patria.
Trudi e Zeev si sposarono il 30 giugno 1946 e nel novembre 1947 sbarcarono, insieme a Rosel, ad  Haifa in Palestina.
Era l’inizio di una nuova vita.
Nel maggio del 1948 ci fu la dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele.
Trudi e Zeev ebbero tre figli, Doron, Oded e Gili.
Nel 1965 si trasferirono a Gerusalemme.
Trudi si è sempre occupata di progetti legati sia all’istruzione che alla cure odontoiatriche di bambini bisognosi senza fare differenze tra bambini ebrei o palestinesi.
Il presidente d’Israele le conferì il premio per la sua opera di volontariato.
Trudi, che è morta nel 2002, decise di scrivere questo libro perché, secondo lei, le persone dovevano conoscere ciò che era realmente successo durante l’Olocausto, perché cancellare i ricordi passati significava non considerare chi aveva sofferto e le persone  che non erano sopravvissute.



COMMENTO
Questo libro mi ha molto emozionato.
Rivivere tutto quello che gli ebrei hanno dovuto subire, mi ha fatto capire quanto l’uomo possa essere disumano e mi ha fatto molto arrabbiare.
Appartenere a razze, religioni, sesso, ideologie diverse, e altro ancora non deve permettere all’essere umano di limitare la libertà dell’altra persona.
Ognuno è libero di fare o pensare ciò che desidera, sempre nella correttezza e nel rispetto delle  persone,delle cose e degli animali.
Sarebbe tutto più semplice se ciò avvenisse veramente.




                                                                                                          Matilde D. 3C

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